Omero, Lo Scudo, Alessandro Romano
Poema della forza e del valore del guerriero, dell’arté eroica, come tradizionalmente è stata interpretata, ma anche “enciclopedia tribale” secondo la felice definizione di Havelock, l’Iliade costituisce per i suoi tempi (e sorvoliamo qui l’annosa e sempre aperta questione omerica) il momento terminale di una tradizione aedica, che affonda le sue radici nella società micenea, e quello iniziale di una tradizione letteraria ormai padrona della scrittura, anche se la trasmissione e diffusione orale del testo durerà ancora a lungo.
E, per noi moderni, cosa rappresenta l’Iliade? Potremmo rispondere semplicisticamente l’inizio di “tutto”. La civiltà occidentale comincia da qui, dal primo canto che un anonimo aedo compose per trasmettere ai suoi ascoltatori un patrimonio di valori che si volevano perpetuare, ma anche, non dimentichiamolo, per dilettarli, per farli sognare: tuttala fascinazione della letteratura, il magico incanto che essa esercita ancora oggi su di noi, trova qui il suo inizio, da un’opera, che pure, a causa delle modalità di composizione, risulta ben lontana dalla nostra concezione di testo letterario.
Archetipo poetico per eccellenza, dunque, l’Iliade (come anche la sorella Odissea) ha nel corso dei secoli ispirato un numero infinito di artisti, che hanno rivissuto (o rivisitato, per usare un termine oggi di moda) il patrimonio epico, con esiti, naturalmente, i più diversi, a seconda della cultura del loro tempo e della propria sensibilità.
Ed uno scultore dei nostri tempi, cui i miti antichi “parlano” e nelle mani diventano forme immaginifiche, crea, novello Efesto, per noi, come un tempo il divino demiurgo per l’eroe omerico, quello scudo di bronzo, forgiato, insieme con le altre armi di un dio per il figlio di una dea, oggetto d’amore e strumento di morte nello stesso tempo.
Il passo dell’Iliade, che contiene la descrizione dello scudo di Achille (XVIII, vv.478-608) rappresenta una pausa nella narrazione della guerra e, nello stesso tempo, una rottura dell’atmosfera epica dominante nel poema. Infatti, dal punto di vista dell’intreccio, il poeta, con la morte di Patroclo, si trova di fronte alle conseguenze estreme di quell’ira di Achille, da cui ha preso l’avvio il suo canto e l’azione stessa del poema; la costruzione delle nuove armi per l’eroe costituisce, quindi l’escamotage narrativo che permette il rientro in battaglia di Achille e la ripresa dell’azione, che poi volgerà rapidamente alla fine. Dal punto di vista dell’atmosfera, invece, la descrizione dello scudo rappresenta una vera e propria ékfrasis, uno spostamento dell’asse tematico del poema di una consistenza ben diversa rispetto agli analoghi spostamenti rappresentati dalle similitudini: il poeta distoglie lo sguardo dal campo di battaglia, popolato da mitici eroi, per volgersi alla quotidianità dell’esistenza, colta nel suo ritmo naturale di vita e di morte, di sacrificio e di gioia, di lavoro e di festa.
Per lo scudo del fortissimo eroe, figlio di una dea, ma soggetto consapevolmente ad un destino precoce di morte, il cantore immagina una decorazione che ha come protagonista l’uomo, la cui vicenda terrena, e quindi precaria, finita, è inserita nel gran mare del cosmo, secondo un ritmo naturale, e perciò stesso armonico, di principio e fine di tutto. E nella narrazione paratattica della tradizione aedica si susseguono i quadri della vita dell’uomo, tutta radicata sulla terra e in cui c’è un tempo per tutto: per la vita civile, per quella operosa del lavoro, per la pace e per la guerra, per la morte.
La descrizione dello scudo contiene numerosi riferimenti alla realtà storica, stratificata, e quindi complessa, che è alla base della poesia iliadica, (donde la problematica sulla maggiore o minore recenziorità del passo rispetto alla totalità del testo), ma il valore della rappresentazione omerica supera quello, pur importante, di documento storico, per assumerne uno metastorico: l’eterna, circolare, vicenda dell’uomo, che compie il suo cammino in uno spazio compreso fra gli elementi naturali: da una parte, “la terra, il cielo, il mare, il sole infaticabile, la luna piena, le costellazioni di cui il cielo si fa corona”, dall’altra “la grande possanza del fiume Oceano”, che tutto avvolge e racchiude.
Protagonista assoluto di questa vicenda, l’uomo compie da solo il suo destino, doloroso e gioioso, la divinità che tanta parte occupa nella materia epica è qui assente, o compare solo marginalmente nella descrizione della battaglia, là dove assolve il suo tradizionale ruolo di personificazione della furia della guerra. Un mondo non perfetto, quello cantato da Omero, perché in esso c’è posto per la violenza e la morte, ma armonico, razionale, obbediente ad una sua intima ragione d’essere, e, quindi, in definitiva felice.
Questa miracolosa sintesi, concettuale ed espressiva, è già incrinata in un epigono della tradizione epica rappresentata dall’autore dello Scudo attribuito ad Esiodo il quale sostituisce al quadro vitalistico e gioioso della realtà umana descrittoci da Omero, uno irreale e terrificante, in cui dominano l’orrido, il macabro, l’impressionante, l’iperbolico. Altri, poi, come Virgilio, utilizzerà il tòpos della descrizione dello scudo dell’eroe per celebrare la grandezza di Roma e l’ordine universale riportato dal regime di Augusto: siamo ormai lontanissimi dallo spirito omerico.
Francesca Curci