L’ARTE COME EPITEDEUSIS ED ENERGHEIA
di Francesco Sisinni
Se la sfida che si pone a chi tenta la lettura iconografica ed ancor più iconologica dell’opera d’arte,nell’impegno di intelligerla, sentirla ed interpretarla, fino all’immedesimazione nell’atto creativo della stessa, sicché il giudizio, per quanto critico, ovvero storico, possa pretendere una sia pur relativa validità, radicando kantianamente l’oggettività nella soggettività, grazie alla sua diffusa condivisione, è doveroso premettere che chi scrive è certamente facilitato in
tale e tanta impresa dalla lunga e costante frequentazione dell’Artista, segnata da emozioni e suggestioni ineffabili e da riflessioni e discussioni coinvolgenti: una sorta, dunque di quel “pulchre cogitare ” di cui parla il fondatore dell’Estetica moderna, Baumgarten. Siffatta “metessi ” all’atto maieutico di una ispirazione o intuizione, che si fa espressione, ovvero linguaggio, è stata comunque ogni volta temperata dalla consapevolezza che quel privilegio non poteva non esaurirsi sulla soglia del Mistero, giacché l’“Oltre ” non è dato a chi non ha ali per ascendere alla visione del Bello (Ione) o, semplicemente, non è attore della “Poiesis ” che è “Poieo ”, ovvero, fare.
Ed è così che ora, invitato a dire dell’opera del Maestro ed amico Alessandro Romano, mi prendo la licenza di ragionar di lui, rifacendomi a siffatti, innumerevoli incontri, nel suo studio, al cospetto dell’opera d’arte, nel suo meraviglioso farsi, col continuo rinvio o riferimento ad altre simili occasioni, pur esse inobliabili, che la mia privilegiata condizione istituzionale e di studio mi ha consentito di avere con tanti altri artisti, tra cui numerosi scultori, quali Manzù, Greco, Crocetti, Fazzini, Messina, Mastroianni, Consagra (per ricordare solo i non più tra noi), con cui è stato bello discutere soprattutto su cosa è Arte, al di là degli sviamenti dei Baconiani idola e delle evasionitautologiche di comodo. È noto che l’incipit della vita artistica di Alessandro Picca (in arte Romano) è segnato da una interessante produzione di pittura “modernista ”: grandi tele, che nelle pennellate celeri e corpose, non proprio indifferenti alle suggestioni linguistiche delle avanguardie (o quanto meno di alcune tendenze), già rivelano, nell’isolamento delle figure plastiche, emergenti nello spazio, spatolato sull’ inesorabile vuoto delle superfici, i segni di quella innata ed ineludibile vocazione di scultore, che, invero, si era manifestata nel suo ludico fare già da bambino, ché proprio in quei giochi innocenti, ma già costruiti con sorprendente perizia, cominciava ad erompere nella ricerca del Bello e, con esso, nella gioia dello stupore. Più tardi Romano capirà che la intravista Bellezza è frammento di quella stessa postulata da Kant (accanto al Sublime), analizzata da Baumgarten e Winckelmann, vista, nella protostoria del pensiero di Occidente, nella “Idea ” da Platone e sentita nell’“Armonia” da Pitagora, ma anche segnata dalla “Nostalgia” da Plotino, lucidamente definita “integritas, claritas et debita proportio ” da Tommaso e, ancora, liricamente vissuta come “splendore dell’intima perfezione dell’anima ” da Dante. In effetti siffatta Bellezza, “sempre nuova ed antica ”, come la chiama Agostino, costituirà la dominante poetica dell’intera produzione artistica di Alessandro Romano, quanto meno a partire dagli anni Ottanta, in cui, alla maturazione di sentimenti e pensamenti forti veniva a contrapporsi una sorta di stanchezza, anzi, di tedio per quella contemporaneità, in cui si trovava comunque immerso, ovvero verso un fare o ricercare, che, pur continuando a chiamarsi arte, finiva per rinunciare non solo alla forma e addirittura alla materia e, perciò, al suo stesso esistere in quanto rappresentazione, ma, anche, alla memoria identitaria dell’Arte stessa, provocando le caustiche reazioni di un Baudrillard e di un Virilio. Vero è che le avanguardie, come scrive Calvesi, avevano creato tipologie formali, che si collocavano agli antipodi del concetto classico e naturalistico della Bellezza e che le stesse, nel loro successivo riallineamento su un unico fronte, non potevano più definirsi ancora avanguardie, non costituendo più alcuna novità sul piano linguistico e scontando così il proprio destino in una pluralità di esperienze, incapaci ognuna di proporsi come tendenza dominante. Ma già Argan, constatando che così “l’arte esperisce la propria morte nell’essere arte ”, aveva avvertito che, rinunciando all’arte e alla sua storia, la società non rinuncia soltanto all’arte, ma alla propria storia! Dinanzi a tale situazione dell’arte, che ancora, secondo Argan, costituiva uno dei grandi problemi del secolo, Romano sente ineludibile proprio il bisogno di entrare nella storia, ma nella storia Vichianamente intesa, in cui, su quella reale, fatta da noi, corre l’altra, provvidenziale, ovvero, la “storia ideale ”. Avvertiva, cioè, il bisogno di por mano alla materia da scolpire, da plasmare, per, come dice Dante, “(tor) il troppo e il vano ”, e così trarne il “prigione ”, la forma, ovvero, la Bellezza (Plotino).
E, ponendosi nell’Aristotelica dialettica della storia, concretamente invertiva l’itinerario delle avanguardie e in particolare dell’arte astratta (v. Seuphor), che si era mossa dalla realtà per allontanarsene e dissolversi in schemi e segni sempre più labili ed incoerenti, fino a figurazioni estranee ed irrelative alla realtà stessa. Così si riconsegnava non solo al processo trascendentale “soggetto-oggetto ”, recuperando la forma come costruzione dello spazio e della materia (v. Focillon), ma se stesso, alla memoria dell’Arte (ed allo statuto delle arti) e perciò al proprio destino morale e civile di Artista. Ma a tal punto poteva ritenersi per lui conclusa anche l’avventura della “Nuova Maniera ”, che pur l’aveva visto protagonista. In effetti quel movimento di giovani artisti, che Calvesi provocatoriamente chiamò “Anacronismo ”, aveva rivelato ben presto una delle sue radici nel Concettualismo, creando intimo disagio specie a chi non riusciva anegare il primato del Sentimento. Romano non si accontenta più di cercare solo i modi ed i segni in cui attualizzare l’idea del Bello, semmai utilizzando opere d’arte del passato (v. il caso di Paolini e, per altro verso, di Mariani), ma sente che il Classico, nella sua autentica accezione di ordine, armonia, cultura, è categoria perenne dello spirito e come tale fonte primigenia e insurrogabile dell’arte. Il problema, dunque, si poneva non tanto nel recuperare le vestigia dell’antico (e con esse le regole ed i metodi del passato) sia pure in un contesto linguistico contemporaneo, quanto nel coscienzializzare il pensamento Hegeliano, secondo cui la scultura è l’arte classica per eccellenza, il che significava in concreto l’impegno della scelta verso l’identificazione nell’ideale dell’arte quale unità dello spirito e della natura (con l’ovvio rinvio alla Idea della Augucchi e Bellori e, ai nostri tempi, all’ideale classico di illustri teorici, tra cui Gnudi) e in chiave Crociana, la interrelazione, anzi, la immedesimazione di bellezza ed espressione. Tale scelta, cui conseguiva la collocazione solitaria nel pianeta dell’arte contemporanea, aristocratica, ma mai arrogante, provocatoria, ma mai polemica, veniva così a esplicitare la consapevolezza che l’arte – come ha scritto Stefano Zecchi – “non è qualcosa che esiste tra le altre cose, che si pratica come un’indifferente abitudine (giacché) essa impegna un’intera esistenza a una decisione. (Tant’è) che se l’uomo rinuncia all’evocazione del vero attraverso le forme dell’arte, nel futuro non esisterà neppure più l’uomo. Soltanto se intendiamo l’arte non come semplice opera prodotta, bensì come attività metafisica a cui la vita ci obbliga, essa rimarrà nella essenza espressione: linguaggio che non circoscrive l’arte nella propria autoreferenzialità, né la riduce ad una tecnica di selezione dei criteri operativi e dei suoi materiali d’uso ”.
Per quanto gli concerne, Romano si fa sempre più certo, attento com’è, alla lezione degli antichi (e in particolare Fidia e Lisippo, non dimenticando Policleto) ma, anche, agli esiti della propria esperienza, che gli elementi costituenti la Bellezza – come peraltro han visto persino nella contemporaneità studiosi, quale il Fry – son da cercare nel ritmo della composizione, nella massa in movimento, nella spazialità che sconfina oltre gli stessi “a priori ” del senso e dell’intelletto e, infine, nella plasticità sobriamente offerta dal gioco della luce e dell’ombra: “Color et in eo Lux et umbra, Candor et tenebrae”, che Bellori applica dalla retorica classica all’arte figurativa, attingendo da Junius. E d’ora in poi la sua arte sarà più peculiarmente segnata dal naturalismo e dal geometrismo (v. Bianchi Bandinelli), intendendo per il primo un organico rapporto con la natura nella sua identità autonoma ed individuale e, quindi, in una visione profana e per il secondo l’esigenza dello spirito dell’ordine, della misura dell’armonia, in una visione ormai metafisica, che chiarisce a se stessa la profonda ansia di trascendenza (v. Hauser). È il tempo del disegno. E non poteva essere altrimenti. Romano fa memoria della tradizione italiana sulla cultura del disegno, fiorita già nel Trecento nella fiorentina Compagnia di San Luca, poi Accademia delle Arti del Disegno, cui appartenne tra altri Michelangelo. Le opere che disegna sembra assecondino tensioni emotive e impulsi creativi improvvisi da restituire subito, nel movimento musicale del ritmo compositivo, quasi a mò di passo mateldico di danza, alle sculture già nell’intuizione intraviste. Viaggia per il mondo, quasi rinnovando l’avventura dei “Pensionnaires” della Colbertiana Accademia di Francia e più tardi dei disegnatori dell’Abate di Saint Non Claude Richard e dei pittori-scrittori, quali Edward Lear ed Herman Meltille. Ma il suo vero pellegrinaggio è ai santuari dell’arte dell’Ellade antica e della Magna Grecia. Il suo taccuino di viaggio si avvale proprio dell’aristocratica arte del disegno per trattenere sull’ancora afano foglio, linee e sagome, che gareggiano a farsi immagine, in un rincorrersi, ora centrifugo, ora centripeto, verso la fonte primigenia della Vichiana “Saggezza poetica ”, ovvero la sorgente inesauribile del Mito. E la mitologia (la greca si intende) non è soltanto l’arsenale dell’arte, ma il suo seno materno. Secondo Platone (Fedro) il mito vale come grandiosa rappresentazione intuitiva e visiva di quel che il reale trascende e come tale non è oggetto del logos, donde la stretta connessione della sua valenza simbolica e del suo valore estetico. Di qui la Poesia, ovvero l’Arte, come generata e generatrice di miti (v. Cassirer). E di qui anche la netta distinzione tra l’attività mitopoietica dello spirito e quella della speculazione cognitiva e, infine, la sua appartenenza, nel raccontarsi o rappresentarsi estetico, al Mistero. E già, perché è proprio l’Arte che tenta di oltrepassare la frontiera del sensibile, il limite dell’esperienza, attraverso l’espressione, che se è parola di Bellezza è ontologicamente inseparabile dal Mistero. In tal contesto lo studio-fucina di Alessandro Romano diventa una nuova Scuola di Egina, da cui escono l’un dopo l’altro, con il loro carico di significati simbolici e rinvii letterari le grandi sculture: Icaro, Mercurio, Medusa e tante altre ancora, tra cui la Sirena che giunge a Maratea dopo l’ultima metamorfosi, con la poesia di Shakespeare e Milton e la seduzione della femminile bellezza. E finalmente, ecco il miracolo dello “Scudo di Achille” (1989). Invero Romano, prima di quel pellegrinaggio (donde avrebbe potuto letteralmente dire, anche lui, col Guercino, Poussin e tanti altri, l’enigmatica “Et in Arcadia ego ”!), aveva pensato ad uno scudo, ma a quello di Enea. Ed era naturale rifarsi all’opera di Virgilio poeta augusteo, lui che aveva da poco assunto il nome d’arte “Romano”. Ma quel viaggio, non solo aveva fatto crescere in lui l’ammirazione per l’arte greca e in particolare per l’opera (e la lezione) di Fidia, carica di forza espressiva einnervata dalla tensione al Bello, non diversamente da come era stata rivissuta da Donatello a Canova, ma gli aveva anche fatto respirare a pieni polmoni la classicità anzitutto omerica. E Omero – il mitico Omero o l’Omero del mito, gli fa subito da guida e intanto gli racconta della sua Chio, dell’Iliade e dell’Odissea, ma, anche, della Tebaide e delle Ciprie (rispettivamente attribuitegli da Callino ed Apollodoro). E gli leggerà proprio dall’Iliade – Libro XVIII – i celebri versi: “Cinque dell’ampio scudo eran le zone, e gli intervalli, con divin sapere d’ammiranda scultura avea ripieni Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo e il Sole infaticabile, e la tonda Luna, e gli astri diversi onde sfavilla incoronata la celeste volta, e le Pleiadi, e l’Iadi, e la stella d’Orïon tempestosa, e la grand’Orsa che pur Plaustro si noma. Intorno al polo ella si gira ed Orïon riguarda, /dai lavacri del mar sola divisa.
Il gran fiume Ocean l’orlo chiudea dell’ammirando scudo…….”. Fu Efesto, il dio del fuoco che crea e produce e perciò il nume dell’Arte e di ogni opera all’arte connessa, il fabbricante dello Scudo di Achille, come dell’egida di Zeus e del tridente di Posidone. Ma Efesto fu anche caro a Dioniso, il dio dell’ebbrezza, che esalta ed ama Afrodite, la dea della Bellezza, che incanta e dell’Amore che rapisce. Nata da quel fuoco, che Prometeo consegnò agli uomini, come il primo elemento vitale, che, assieme all’aria, all’acqua ed alla terra Empedocle vide costitutivo dell’intero universo. Questa opera sprigionò “energheia” e come tale piacque in Olimpo, come ad Eracle e Tetide. La sfida è esistenziale! Romano torna nella fucina di Lemno, ove si fabbricano gli scettri degli dei e le armi degli eroi e ci consegna nel suo Scudo un capolavoro, su cui la critica d’arte più rigorosa e la cultura iconologica più attenta, hanno già scritto pagine di acuta analisi, lirica interpretazione ed ammirazione condivisa (e mi par qui doveroso il rinvio alla bella pubblicazione “Lo Scudo di Achille di Alessandro Romano”, edita da Franco Maria Ricci, 1990). È che Romano si è immedesimato nel verso omerico dell’Iliade, ma, anche, dell’Odissea (Libro VIII), con la sensibilità di chi è aduso alle suggestioni della mitopoietica, ma che solo assecondando la propria vocazione alla Bellezza e la forte tensione alla Verità, ha saputo dar forma mirabile ai pensamenti ed alle intuizioni che attingono alle fonti dell’Assoluto. Pensamenti ed intuizioni, che trovano espressione lirica e linguaggio moderno in un’opera, ove alla distinzione Platonica tra il mondo delle idee (le costellazioni ed i miti) e il mondo delle cose (le contingenze e le terrene vicende) si pone ed oppone la visione dell’uomo in quanto “essere” ed “esistere ”, per cui Parmenide ed Eraclito avranno sempre entrambi ragione! Un’opera, questa, cui resta affidato un altissimo messaggio: avverso al fato dell’annunciata, inesorabile morte sta la certezza che il Bello non può morire. Intanto iniziava per Romano una nuova, affascinante avventura, spiritualmente intima. In compagnia delle Confessioni di Agostino, si avvicinava vieppiù alla lettura del testo biblico, con la conseguente dedicazione all’arte sacra, o meglio, a soggetto religioso, ché l’arte – si sa – se è bella e vera, è sempre sacra. E ciò con la consapevolezza della responsabilità che siffatta scelta comporta: il cristianesimo vede nell’arte il veicolo di sentimenti e di idee di elevazione spirituale e di trascendenza: “invisibilia per visibilia ” aveva detto in proposito già Adriano I. Tale arte è destinata al popolo di Dio, nei cui confronti ha da svolgere una triplice funzione: catechistica, liturgica e, finalmente, salvifica. Ordini religiosi e curie chiedono sempre più insistentemente la sua opera e la Fabbrica di San Pietro colloca ben quattro delle sue sculture nelle nicchie absidali esterne della Basilica Petrina. Ora so che Romano aspetta il momento di grazia per dar forma al Crocefisso. Sul suo tavolo di lavoro scorgo un libro: è l’Idiota di Dostoevskij aperto alle pagine in cui il nichilista Ippolit domanda al principe Myskin quale Bellezza salverà il mondo. Nei contrapposti ragionamenti sulla Bellezza, mentre ci assedia il nichilismo Dostoevskij ci propone il superamento delle contraddizioni, la via di uscita, nel Crocefisso. “Solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte. Ma questo è avvenuto sulla Croce del Figlio” (Forte).
E già perché “la sofferenza divina giunge ad essere completa espiazione e liberazione” (Pareyson). Perciò Cristo, Bellezza incarnata e crocifissa, è la Bellezza che salverà il mondo. Lascio nel suo studio-fucina Alessandro Romano, assediato dai numerosi corsisti che frequentano il Master in studi storico-artistici da me diretto. L’artista ha negli occhi una sorta di luce, che suscita stupore, proprio come quel brandello di argilla, che ha tra le mani e che prodigiosamente sta prendendo forma, ovvero, bellezza.
